Settant'anni dietro un pallone, prima regista raffinato, poi opinionista. Sempre con la battuta pronta, i valori contadini di papà e mamma dentro, le piramidi di libri sul comodino. Eraldo Pecci spegnerà sabato le candeline, si volta indietro sereno ma un filo di disagio s'allunga: «Il numero fa effetto, per la prima volta il compleanno mi dà un po' fastidio. Però ho letto che più ne festeggi più campi, e allora va bene così».
Non si smentisce: settant'anni di leggerezza...
«La vita dà tanti pensieri, attraversarla con il sorriso è importante: l'ho sempre fatto e non cambio da vecchio».
Settant'anni, ovviamente, di calcio...
«Nei primi ricordi il pallone c'è sempre, partitelle infinite nella campagna romagnola finché non sentivo il fischio del babbo per cena. Noi bambini non avevamo altro, eppure eravamo fortunati: non c'erano pericoli né tentazioni, eravamo contenti con poco, figli di chi veniva dalla guerra e sapeva cos'era la fatica».
Se non avesse fatto il calciatore?
«Ho risposto, nel tempo, contrabbandiere, disadattato o sbandato. Per dire che non avrei saputo immaginarmi senza calcio. Qualsiasi lavoro avessi scelto, avrei giocato comunque per passione».
La prima squadra?
«Il Superga 63, guarda il destino. Era del prete, e chissà che ne pensava papà Gino: per lui, Stalin era di destra».
Non veniva a vederla...
«Una volta, ma andò via subito. Era molto severo, lo erano tutti i papà, mentre mamma Leda, come tutte le mamme di allora, ci accudiva con dolcezza. Quella generazione di genitori era così, aveva studiato poco ma sapeva educare: non credo che noi siamo stati bravi a crescere i nostri figli come loro con noi».
Superò un provino con la Juve...
«Pensi cosa ho rischiato (ride). Giocavo al paese e s'era sparsa voce che ero bravino, così vennero a vedermi dal Bologna e decisero subito di tesserarmi. Quando si presentò l'osservatore della Juventus, le due società avevano già l'accordo, così, una volta superato il provino al Combi, davanti al capo degli osservatori bianconeri Locatelli, per uscirne bene i miei dirigenti spararono una cifra altissima».
In rossoblù bruciò le tappe.
«Debuttai in Serie A a 18 anni, proprio contro la Juve. Mi ricordo tutto, magari non so che ho mangiato ieri ma di quella partita ho presente ogni attimo. Finì 1-1 con due rigori, fallo mio su Bettega e fallo di Salvadore su di me. Arbitrava Casarin, e sa cosa successe? Bulgarelli o i grandi campioni bianconeri lo mandavano a quel paese e lui si limitava a replicare "stai calmo", io chiesi una punizione alzando le mani e mi ammonì. Capii che dovevo stare al mio posto».
Vinse la Coppa Italia a 19 anni: suo il rigore decisivo...
«Era il 1974, finale con il Palermo. Pareggiammo al 90' e l'1-1 rimase intatto ai supplementari, così ci toccò il dischetto. Non c'era lista, si decideva tiro per tiro, all'ultimo Pesaola si avvicinò e mi disse "vada lei". Forse perché al torneo di Viareggio, che all'epoca era un piccolo Mondiale, avevamo vinto la semifinale ai rigori e li avevo calciati tutti io. Andò bene, Palermo battuto: confermai l'abilità dagli undici metri che persi invece al Torino».
Pesaola dava del lei anche a un ragazzino?
«A tutti. Perfino se ti mandava affanculo. Una volta, parlando di caratteristiche, dissi di sentirmi estroso e lui: "Lei è estronzo, non estroso"».
Dal Bologna al Toro...
«Calcisticamente, sono nato e morto in rossoblù, ma l'età dello sviluppo è stata granata. Ho avuto la fortuna di giocare in squadre forti e città belle, ovunque sono stato bene, ma Bologna e Toro le amo in particolare: vedere il Fila è come vedere Parigi o Roma per la prima volta. Ti incanta, è come se ti parlasse e non mi importa se qualcuno pensa sia retorica».
Destini diversi, in questo momento, per le "sue" squadre...
«Non si può chiedere più di lottare con le big, ma possono nascere lo stesso cose belle. Bologna le vive, speriamo ci riesca anche il Toro».
Lei lo scudetto in granata lo vinse.
«Un'emozione unica, ero un ragazzino e a quell'età pensi che tutto sia dovuto: la verità è che fui fortunato a capitare in una squadra dalla chimica speciale, pronta a vincere».
Poi il Napoli di Maradona.
«Chi l'ha conosciuto non può che parlarne bene. Era sempre a disposizione di tutti, specie degli ultimi. All'ultima di campionato, ad Avellino, sapendo di andar via perché volevo avvicinarmi a casa, ringraziai i compagni uno per uno. Lui rispose: "Ringrazio io te per come mi hai insegnato a stare in campo". Ovviamente non era vero, ma erano le parole del capo vicino all'ultimo uomo, del grande che vuol far sentire il piccolo apprezzato. Abitavamo nello stesso palazzo, ogni tanto lo sfottevo chiedendo se volesse lezioni di palleggio con il destro. Calcisticamente, per me è stato il più grande: nel palazzo dei grandi, lui ha un attico».
Tornò al Bologna...
«La più grande soddisfazione perché da vecchio sono riuscito a dare qualcosa ai giovani, piccoli consigli o piccole risposte. E loro mi hanno fatto invecchiare bene».
Il calcio champagne di Maifredi.
«Seppe creare un ambiente gioviale, valorizzò tanti talenti, in città c'era entusiasmo come adesso. Credo non fosse pronto per la Juve, come forse non lo era Motta. Ma fare paragoni non ha senso».
In Nazionale ha giocato poco…
«Nessun rimpianto, se fai del tuo meglio quello che arriva è conseguenza. Magari ci sono state combinazioni sfavorevoli, per esempio Bearzot che si ispirò al modello Juve senza regista, ma se fossi stato Suarez avrei trovato spazio. Il ct mi voleva un gran bene».
Seconda vita da opinionista...
«Quante partite con Pizzul, un'enciclopedia viaggiante. Eppure non l'ho mai sentito dire "io". Era uno sportivo, se ne intendeva. Quando ho saputo che, giovane difensore, fu preferito dal Catania a Burgnich, gli ho chiesto se davvero fosse stato più forte. E lui, sorridendo: "Pensa quanto ci capivano quei dirigenti"».
Come festeggerà?
«In famiglia. Con i miei nipoti. E la tagliatella».
Come si immagina nei prossimi anni?
«A fare due passi, con sempre più fatica. Un giorno in piazza, al paese, ho visto un vecchio su una panchina: veniva a scuola con me... È l'inizio di una nuova vita, ma i settanta mi fanno effetto».
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