Questa sera alle ore 21.20 andrà in onda su Focus il film-documentario "Volevo solo vivere, treno 8017 l'ultima fermata" che racconta la tragica storia del disastro ferroviario di Balvano del 1944, uno dei più gravi incidenti ferroviari italiani.
Il film è stato girato a Polla, grazie alla Pro Loco a Giuseppe Esposito ed alla collaborazione tra la Pro Loco e Ciak Mania Produzione.
Nell'occasione l'ex stazione ferroviaria, chiusa da anni, è stata riaperta grazie al lavoro dei volontari della Pro Loco consentendo così l'uso dei locali e lo svolgimento delle riprese.
Alle tre del mattino del 3 marzo 1944 Luigi Quaratino, telegrafista di turno a Potenza, trascrive un dispaccio: "Treno 8017 fermo in linea tra Balvano e Bella-Muro per insufficienza forza trazione, attende soccorso". Sono le prime vaghe notizie su quello che diventerà il più grave disastro ferroviario nella storia d'Italia. Una strage che ricordiamo con l'articolo "Il treno della morte" di Gigi Di Fiore, tratto dagli archivi di Focus Storia. Un disastro oggi pressoché dimenticato, una vicenda che riemerge dai confusi mesi dell'ultimo anno della Seconda guerra mondiale. Teatro del dramma è la linea ferroviaria lungo la quale i campani si spostano in Basilicata, in fuga dalla fame. Erano mesi di guerra, con il fronte di Cassino insanguinato e gli Alleati padroni di fatto di tutte le decisioni nel Regno del Sud (la parte di Italia liberata dal nazifascismo).
Mesi di borsa nera, paura e miseria. Per merci e viaggiatori tra Napoli e Potenza c'era quell'unica linea ferroviaria. Un treno a vapore partiva due volte alla settimana, senza orari fissi. Il percorso era coperto anche dal treno 8017, destinato ad armi, munizioni e rifornimenti angloamericani diretti al fronte. Un treno a "orario libero", da usare ogni volta ve ne fosse bisogno.
Il convoglio del treno 8017, 47 vagoni trainati da due locomotive a carbone, partì vuoto da Napoli il 2 marzo per andare a caricare legname necessario per ricostruire i ponti distrutti dai bombardamenti. Durante il viaggio di andata, nessuno sarebbe dovuto salire su quel treno. Ma non andò così.
Nelle stazioni intermedie (Nocera, Salerno e soprattutto Battipaglia), il treno fu preso d'assalto da gente carica di merce da barattare alla borsa nera. Non ci fu modo, per il personale di bordo, di tenere sotto controllo quella folla impazzita.Il treno si riempì di merci, raggiungendo un peso stimato di 520 tonnellate. Soltanto a Eboli salirono 100 persone. Tra loro c'era anche un professore dell'Università di Bari, Vincenzo Iuta, che cercava di tornare verso la Puglia con una decina di studenti. Alla stazione di Romagnano i passeggeri diventarono più di 600, tra cui alcuni contrabbandieri: uomini e donne, ma anche ragazzi delle province di Napoli e Salerno. I più numerosi erano di Cava dei Tirreni, Castellammare, Torre del Greco, Torre Annunziata, Nocera Inferiore. Tanti avevano, nascosti sotto strati di maglie e cappotti, caffè, sigari, medicine da scambiare a Potenza con prosciutti, zucchero, farina, pane, carne.
La linea non era elettrificata e non lo sarebbe stata fino al 1994. Le due locomotive arrancavano, anche per la pessima qualità del carbone di produzione iugoslava, molto economico e impiegato dagli Alleati per risparmiare. Quel carbone, purtroppo, aveva un altro, più grave, difetto: sprigionava gas mortali.
A mezzanotte e 12 minuti, secondo quanto si ricostruirà poi, l'arresto nella galleria "delle Armi", tra Balvano e Bella-Muro Lucano. La pendenza massima era del 13 per cento e il convoglio era entrato in galleria rallentando, dopo un altro treno. Il peso eccessivo e la salita provocarono l'arresto nel tunnel.
Dalle locomotive si sprigionò subito una densa cortina di fumo. Il tentativo di retromarcia del macchinista fu inutile: i gas che uscivano dai fumaioli agirono in pochi istanti. Qualcuno morì senza quasi accorgersene. Altri cercando di scaraventarsi fuori dalle carrozze, altri ancora schiacciati dalla gente che correva in cerca d'aria.
Luigi Cozzolino, uno dei sopravvissuti, dormiva accanto al figlio dodicenne. Si svegliò per le urla e si accorse che il ragazzo era morto. Il diciannovenne Ciro Pernice viaggiava in cerca di cibo per la sua numerosa famiglia, si addormentò sotto una mantellina militare, che lo salvò, e si ritrovò all'ospedale di Potenza. Non furono così fortunate decine e decine di suoi compagni di viaggio, i cui cadaveri avevano spesso il volto tranquillo di chi muore nel sonno.
Fu l'agenzia Reuter a diffondere per prima la notizia. I corpi vennero allineati dai soccorritori sulla banchina della stazione di Balvano-Ricigliano. Il Corriere della Sera parlò di "500 italiani periti per asfissia e 49 superstiti in ospedale".
Nel verbale del consiglio dei Ministri riunito a Salerno, allora capitale del Regno del Sud nato dopo l'armistizio dell'8 settembre 1943, si parlò di 517 morti. E si leggeva: "Tutto il personale addetto al treno è deceduto, all'infuori di un fuochista. Tutti gli altri erano viaggiatori di frodo". Si azzardava anche una spiegazione dell'incidente: "Da attribuirsi alla pessima qualità di carbone fornito dagli Alleati".
Anche gli angloamericani disposero un'inchiesta, che il Military Railway Service affidò a 5 ufficiali. Due giorni di lavoro, dopo rapidi interrogatori di superstiti e personale ferroviario resi difficili dall'incomprensione fra le lingue diverse. Si fecero ispezioni e una perizia, condotta da ufficiali angloamericani e francesi. "Avvelenamento da combustione di carbone di pessima qualità", furono le conclusioni. Il 23 marzo del 1944, il Corriere-Salerno parlò di morti per asfissia da acido carbonico "straordinariamente velenoso".
E definì la tragedia "caso di forza maggiore". Del resto gran parte di quei viaggiatori non avrebbero dovuto essere lì.
Partì infine una terza inchiesta, autonoma, del sindaco di Balvano. Ma fu bloccata dagli Alleati. Scriverà la rivista americana Time nel 1951: "Il governo alleato si sforzò di occultare l'incidente per evitare l'effetto deprimente sul morale degli italiani". Insomma, un insabbiamento giustificato da un fine nobile.
Ma l'8 marzo del 1944, La Stampa di Torino, che si pubblicava in quella che era ancora la Repubblica di Salò, soffiò sul fuoco: "Le notizie, finora trasmesse con il contagocce dagli inglesi, bastano ad inquadrare il tragico episodio nei sistemi usati dai liberatori nei riguardi dei nostri disgraziati connazionali caduti sotto il loro dominio". Insomma, in quel contesto storico-politico precario, la notizia fu strumentalizzata da più parti. Di certo, il traffico ferroviario al Sud era totalmente controllato dal Military Railways Service alleato. E i risultati dell'inchiesta angloamericana non furono resi noti. Il governo Badoglio, da parte sua, individuò tre facili capri espiatori: i capistazione di Battipaglia, Balvano e Bella-Muro. Furono sospesi, per non aver impedito che i clandestini salissero sul treno merci. Persino il numero dei morti rimase incerto, con documenti contrastanti. Alla fine, sembrò mettere d'accordo tutti la lapide scolpita nel cimitero di Balvano: 509 morti, 408 uomini e 101 donne. Sette anni dopo, ai familiari delle vittime fu riconosciuto un misero risarcimento.
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