È  morto oggi, martedì 2 luglio, a Pistoia, Comunardo Niccolai, che vinse lo scudetto con il Cagliari nel 1970.

Ci sono nomi che non si dimenticano. Ricciotti, per esempio. O magari Comunardo. Se poi li trovi nella stessa squadra capisci che sei davanti a qualcosa di magico e irripetibile. Come era Comunardo Niccolai ( a proposito Ricciotti era Greatti, suo compagno nel Cagliari). Niccolai ha segnato il suo ultimo autogol. A tutti quelli che gli volevano bene. Uscendo dal campo della vita.

Aveva 77 anni. Molti spesi a spiegare perché facesse sempre gol nella porta sbagliata. La sua. Una nomea esagerata, come tutti i pregiudizi. Di reti sbagliate Comunardo ne mise a segno sei, due in meno, giusto per dire, di Riccardo Ferri. Solo che le sue erano opere d’arte, mica svarioni. Colpi di testa all’incrocio che neanche Zamora poteva parare.Solo che Niccolai era molto di più. Un difensore coi fiocchi di quelli che le caviglie degli attaccanti non vorrebbero mai incontrare. Anche le sue erano fragili. Se le doveva fasciare sempre prima di giocare. L’unica volta che si dimenticò si fece male sul serio. Solo che scelse la partita sbagliata: Italia-Svezia, il debutto ai Mondiali del 1970. Entrò Rosato e lui non giocò più. Si perse la partita del secolo con la Germania e la finale contro Pelé. Un altro autogol dei suoi.

Toscano di Uzzano nel Pistoiese si fece largo a fatica nel mondo del pallone dove non sempre i migliori fanno strada. Sarà anche per questo che il calcio è la metafora della vita. Fatto sta che finì nella squadra più improbabile per alzare qualche trofeo. Invece quel Cagliari vinse tutto. Perché uno scudetto in Sardegna valeva almeno tre Champions vinte altrove. C’era tutto un sistema da dribblare, arbitri compresi. E non era qualunquismo.

Niccolai con la sua faccia di chi le ha viste tutte e non si stupisce di niente, con un riporto sulla testa che lo portava avanti negli anni, era un baluardo per quelli davanti. I Domenghini, i Gori e soprattutto i Riva.

Su di lui potevano contare. Di lì non si passava. Al limite era lui a decidere il quando e soprattutto il come prendere un gol. Una garanzia per gli attaccanti, un incubo per i portieri, anche se si chiamavano Ricky Albertosi. Ma anche in questo caso si sconfina con la leggenda, peggio con l’esagerazione. La difesa dei sardi era praticamente imperforabile. Nell’anno dello scudetto subirono solo undici reti. Un primato. La retroguardia un mix perfetto tra la classe di Cera e l’andare per le spicce di Martiradonna.

Dicono che Scopigno, l’allenatore del Cagliari, davanti a Niccolai con la maglia della Nazionale commentò: «Niccolai in mondovisione. Adesso le ho viste tutte». A dimostrare una sfiducia che di sicuro non esisteva. Scopigno amava le battute mordaci, poi la sostanza diceva altro.

Il nome Comunardo veniva dal padre, ex portiere del Livorno e convinto anti fascista, che voleva ispirarsi alla Comune di Parigi di fine Ottocento. Un idealista come suo figlio sul campo.

Fa pensare che l’addio alla vita di Niccolai sia avvenuto pochi mesi dopo quello di Gigi Riva  (a gennaio, al Corriere, Comunardo ricordava Riva così: «Ci conoscevamo da sempre. Avevamo fatto anche il militare insieme, alla Cecchignola di Roma. Quante ne abbiamo combinate. Gli anni più belli della nostra vita»). Due, che in modo diverso, i gol li sapevano fare. E qualcosa vorrà pur dire. Grazie Comunardo che il calcio con quelli come te non sarà mai un gioco come gli altri.

Sezione: Primo Piano / Data: Mar 02 luglio 2024 alle 17:32 / Fonte: corriere.it
Autore: Redazione / Twitter: @tuttopotenza
vedi letture
Print